Diego A. Collovini

Tutto scorre, tutto diventa altro

Ci è difficile identificare, con gli stili artistici attuali o con un linguaggio storicamente definito, il lavoro di Domenico Montesano. Pur essendo presente nelle sue composizioni della pittura, non si possono definire opere pittoriche, né possono essere ascritte tra le installazioni, poiché non appartengono ad uno spazio esperibile; né ancora si identificano con concetti, simboli o significanze altre rispetto al loro mostrarsi; nonostante ciò il suo lavoro si trova a confrontarsi con altre realtà espressivo-artistiche dell’arte contemporanea, spesso attingendo a un particolare aspetto linguistico che, sebbene utilizzato da molti artisti, non si è mai autonomamente affermato e che si manifesta in quella tecnica di dadaista memoria definita assemblage. Così, per un immediato accostamento a questo genere compositivo, le sue opere si possono annoverare tra le composizioni tridimensionali, in cui coesistono oggetti, elementi di materiale diverso, di origine naturale o risultato di altra manualità; componenti indefiniti, anche nella forma, che si confrontano tra loro.

Un altro aspetto caratterizzante è la componente estetica. I suoi lavori, infatti, si propongono come una riflessione su alcuni linguaggi che hanno relativamente alimentato parte delle manifestazioni artistiche degli anni sessanta, quando cioè si è assistito a una prolifica contaminazione dei linguaggi dell’arte. Molti artisti hanno fatto dialogare le loro opere con altri stili, senza che queste si trasformassero o diventassero altro. Lo sperimentalismo di quegli anni (poi per molti consolidato) s’è misurato con le più diverse espressività. Possiamo citate i sacchi di Burri o i vetri di Gastini incollati sulla superficie, e ancora ricordiamo la scopa di Rauschenberg e le stecche con bicchieri di Jones, la polvere di ferro fluttuante sulla superficie della Varisco, le stoviglie di Spoerri, i legni e i ferri di Kounellis o le terraglie o i cocci di Cragg, solo per citarne alcuni. Divagazioni linguistiche che non si sono mai trasformate in un linguaggio autonomo ma rimaste complementari e arricchendo altri linguaggi.

E dunque in questo modo che Montesano guarda al percorso della storia dell’arte, cosciente anche della portata significativa insita nel concetto di riutilizzo. Per questo è necessario per l’artista dare forma alla creatività in un contesto comunicativo di per sé già efficace.

Vi è inoltre la consapevolezza che il linguaggio dell’arte è sempre in mutazione, e questo lo induce a perseguire un personale percorso linguistico–creativo non solo sotto l’aspetto del fare, ma tenendo sempre presente la funzione estetica dell’opera stessa. Intendendo per estetico il processo di formalizzazione di un equilibrio fra i suoi elementi non prima però di aver guardato singolarmente ai componenti e alla loro trasformazione funzionale nel tempo e nello spazio. E questo lo porta a personalizzare il suo rapporto con la casualità, alternando razionalità progettuale e creatività, per concentrare poi il suo lavoro nel processo in divenire dell’opera stessa. Solo in questo modo si manifesta sintonia tra la propria indole (come avrebbe detto il buon Sapegno) e il linguaggio dell’arte.

Montesano ha ben presente che gli oggetti o gli elementi che liberamente manipola hanno un passato, poiché portano con sé i segni di un’altra storia. All’artista il compito di originare una nuova forma, di interpretare lo spazio, di inventare nuovi equilibri “infinite soluzioni con giochi ad incastro di materia come la creta, legno, gesso e colore”. Ne esce una nuova forma che mescola attualità e passato; ciò che rimane è solo una essenziale e significativa traccia dell’evoluzione in divenire dei residui della natura.

Il riutilizzo però non esprime né presente, poiché la materia viene dal passato, né passato poiché, come direbbe Agostino, il passato non esiste più perché ogni componente ha perso la sua prima identità. Per questo le opere sono la testimonianza di un operare, come sintesi del dialogo tra la relativa storia degli elementi che compongono l’opera e una nuova forma estetica. E questo ci induce a leggere gli assemblage come la trasformazione sia delle forme nel tempo che delle relative identità e spazialità dei suoi componenti. Questo tipo di lettura ci porta a intendere le sue opere come metafore dell’instabilità dell’essere. Un essere incerto, poiché se in alcune opere è reso visibile in altre è solamente percepibile, perché volutamente estraniato dalla descrizione. Opere non esplicitamente completate che vengono affidate a una lettura fenomenologica, lasciando allo spettatore la possibilità di individuare la loro possibile o probabile identità. Questo ci appare evidente nei paesaggi (ma sono tali solo se così li vogliamo vedere), nei quali i cocci, le pietre carsiche o i legni spezzati assumono posizioni e forme che inducono chi guarda a riconoscere delle vie d’acqua, delle strade, dei percorsi anche insidiosi per la loro instabilità, comunque immagini di un cammino. 

E in quelle strade, nelle sequenze di case o percorsi fluviali, razionalmente accentuati dall’artista, viene materializzata l’idea di un percorso che insinua la raffigurazione del fiume, come metafora del divenire – anche parafrasando il panta rei di Eraclito – che, nella storia come nel tempo delle cose, tutto scorre, tutto diventa altro. Ciò che era prima non sarà in futuro, poiché le forme nel tempo si trasformano.

L’unico presente è il colore; un colore che attenua, custodisce, amplifica, illumina l’opera. Elemento complementare di una materia modellata nella sua singola e a volte unica forma. In questo contesto il colore si fa narrazione ed entra così nella memoria, nell’esternazione delle percezioni umane che collegano i ricordi (come non apprezzare, anche con le parole di Ungaretti, quel triste e assente Monte San Michele? Benché solo citato nel titolo) con le sensazioni.

E questo aspetto evocativo lo si può intravvedere anche nelle sue pitture. Esili nella materia (acquerello su carta) come vaghe visioni di un mondo di segni e di movimentate percezioni. Non c’è la figura, non c’è quel mondo che circonda l’artista. La sua pittura (come del resto gli assemblage) non rappresenta oggetti reali ma disegna atmosfere; un po’ testimonianza di un mondo vissuto (come non guardare al Carso davanti ai segni arzigogolanti come vegetazione dai colori caldi dei marroni e dai grigi, immagine cruda in una superficie petrosa) o di un mondo fantastico, dove il tenue colore, dai cromatismi azzurrognoli e tersi, introduce la nostra immaginazione in un mondo quasi irreale o apparente. Le sue pitture sono espressione del sentire se stesso più che del vedere la realtà che lo circonda.

Così tra un’indefinita forma – tridimensionale o piana, materiale o pittorica che sia – e un’idea di disequilibrio, offerto dalle sue instabili superfici, le opere di Montesano si trasformano nell’allegoria dell’incertezza dell’essere nel percorrere il divenire della vita. Eppure sotto quell’instabile superficie ancora una volta scorre l’idea dell’acqua metafora del tempo e di quelle forme che si susseguono e si trasformano. All’artista spetta il compito di attualizzarle e di significarle e Montesano sa far dialogare la storia degli elementi con una nuova forma, sapendo che il suo creare non può che essere un parziale momento del percorso temporale della materia che manipola.

diego a. collovini